Non solo la Cina: tutti i Paesi emergenti sono troppo indebitati

mercati emergenti

Sebbene il caso cinese sia preoccupante, è bene ricordare che sono davvero tanti i Paesi emergenti che si trovano in una situazione debitoria difficilmente sostenibile, fino a quanto reggerà il sistema ? (guest post)

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Duemila miliardi di dollari in cinque anni. Tanto è cresciuto l’indebitamento dall’estero dei Paesi emergenti secondo BofA Merrill Lynch che in un recente report ha calcolato che dal terzo trimestre 2008 allo stesso periodo del 2013 l’ammontare complessivo di bond e prestiti bancari in arrivo dall’estero sia passato da 3 a 5 mila miliardi di dollari (+66%). Un balzo senza precedenti alimentato soprattutto dal canale obbligazionario: le emissioni in valuta estera – secondo gli analisti della banca d’affari americana – sono più che raddoppiate in 5 anni passando da mille a duemila e 100 miliardi di dollari. Un incremento di mille e cento miliardi che è pari a più del doppio dell’aumento registrato nel quinquennio precedente (432 miliardi).

Questa gigantesca bolla speculativa è stata alimentata dalla Federal Reserve che, per far fronte alla peggior crisi finanziaria dal crack di Wall Street del 1929, prima ha azzerato il costo del denaro e poi ha iniziato a comprare titoli sul mercato. Il bilancio della banca centrale nel giro di 5 anni è così quadruplicato passando da mille agli attuali 4mila miliardi di dollari. La Fed ha di fatto stampato moneta in quantità industriale provocando un forte calo dei tassi di interesse sui titoli di Stato Usa e, di riflesso, su tutto il mercato obbligazionario. Gli investitori a caccia di rendimento si sono rivolti quindi ai mercati emergenti. Il “giochetto” è quello del carry trade: ci si indebita a costo zero dove i tassi sono bassi (negli Stati Uniti) per poi investire dove i rendimenti sono più alti e l’economia è in crescita (i Paesi emergenti). Lucrando peraltro sul fattore valutario dato che negli ultimi anni molte valute emergenti, complice la crescita economica e la politica espansiva della Fed, si sono rivalutate sul dollaro.

Ora però il meccanismo si è guastato perché la Fed ha iniziato a ridurre gradualmente gli stimoli monetari (tapering). È bastato solo che la banca centrale Usa annunciasse la misura (a maggio del 2013 in una famosa audizione al Congresso di Bernanke) che gli operatori di tutto il mondo hanno iniziato ridurre pesantemente la loro esposizione in bond e azioni dei Paesi emergenti. Nel 2013, calcola Epfr Global, c’è stato un deflusso da 60 miliardi nei fondi (azioni e bond) specializzati nelle nuove economie e nel 2014 l’andamento dei riscatti si è ulteriormente intensificato (12 miliardi di deflussi solo a gennaio tra azioni e bond) nei primi mesi del 2014. Una fuga di capitali che ha avuto pesanti ripercussioni sulle monete di molti Paesi che hanno sperimentato una violenta svalutazione.

Tornando alla bolla da duemila miliardi di dollari, quali rischi ci sono da questo cambio di vento sui mercati? Innanzitutto c’è un rischio valutario dal momento che molte banche e società dei Paesi emergenti si troveranno a dover rimborsare un debito contratto in valuta forte da una posizione di svantaggio visto che il dollaro si è fortemente apprezzato soprattutto nell’ultimo anno. Le consistenti riserve in valuta estera accumulate da molti Paesi emergenti in questi anni danno una certa tranquillità. C’è però un grosso problema per quanto riguarda i collaterali, cioè le garanzie date a fronte di questi come gli immobili, che sono esposti a un rischio svalutazione.

«C’è urgente bisogno di nuovi canali per sostenere l’accumulo di riserve in valuta estera» scrivono gli analisti di BofA Merrill Lynch. «Ad esempio attravero una maggiore apertura dei mercati azionari o con operazioni di privatizzazione». Se questo non dovesse accadere dovranno intervenire le banche centrali attraverso svalutazioni competitive che possano far crescere le esportazioni e di conseguenza l’afflusso di valuta forte. Una mossa dagli effetti collaterali imprevedibili secondo gli analisti della banca d’affari.

La stuazione poi potrebbe ulteriormente aggravarsi se la Fed dovesse intensificare ulteriormente la stretta monetaria. Dalle “minute” (verbali) dell’ultimo direttivo, è emerso infatti che qualche banchiere vorrebbe alzare i tassi già nella seconda metà del 2014.

Analisti e addetti ai lavori monitorano costantemente la situazione per capire se e come ci sarà un effetto contagio anche in Europa e negli Stati Uniti. Per il momento la situazione pare sotto controllo. Anzi, c’è chi da questa fuga dagli emergenti sta traendo vantaggio. Ad esempio i Paesi periferici dell’area euro come Italia e Spagna. Il deflusso dai fondi obbligazionari dei Paesi emergenti è coinciso con un corrispondente afflusso di liquidità nei fondi specializzati nei bond dei cosiddetti Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). Una benzina che ha contribuito in maniera determinante per esempio al calo dello spread Bund-BTp, tornato ampiamente sotto la soglia dei 200 punti, con il rendimento dei decennale italiano che nelle ultime sedute ha rivisto i minimi dal 2006.

 

Articolo tratto da “Il Sole 24 Ore”

 

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