Detroit dichiara bancarotta

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Clamoroso, per la prima volta nella Storia degli USA una grande città dichiara bancarotta, e adesso cosa succederà ?

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La notizia era nell’aria, si potrebbe dire da decenni. Il fallimento della città di Detroit, il più grande di un ente locale nella storia degli Stati Uniti, segna un punto di svolta nella vita della capitale dell’auto americana – anche se è presto per dire se la svolta sarà in positivo. Dopo decenni di corruzione, criminalità alle stelle, declino economico e spopolamento, l’emergency financial manager Kevin Orr – nominato a marzo dal Governatore del Michigan Rick Snyder – ha ufficialmente chiesto la protezione dai creditori in base al Chapter 9 della legge fallimentare americana (l’equivalente del Chapter 11 cui fecero ricorso General Motors e Chrysler nel 2009). La richiesta è stata depositata giovedì pomeriggio al tribunale fallimentare della città.

Che succederà ora ?
I negoziati condotti nelle ultime settimane da Orr con i creditori non sono riusciti a ridurre se non in minima parte l’onere del debito, e il manager non ha avuto altra scelta che dichiarare la bancarotta. Il Chapter 9 assegna in teoria ampi poteri a Orr e al giudice fallimentare per tagliare i costi di funzionamento e i debiti; ma gli scenari sono in gran parte inesplorati, soprattutto per un fallimento di queste dimensioni: ci si attende una lunga battaglia tra i creditori e la procedura fallimentare, una battaglia che stabilirà un precedente fondamentale soprattutto per quanto riguarda il trattamento delle pensioni in caso di fallimento di un ente locale. Fra i debiti non garantiti, ovvero quelli più a rischio, ci sono 9 miliardi di dollari di assistenza sanitaria e pensioni; gli ex dipendenti della città rischiano di ottenere il 10% di ciò cui avrebbero diritto.

Il parellelo con i giganti dell’auto.
Il parallelo con il destino di General Motors e Chrysler è inevitabile ma solo in parte azzeccato. Le due aziende portarono i libri in tribunale nel 2009 dopo decenni di scelte manageriali sbagliate, rigidità sindacali, bilanci in rosso e perdita di quote di mercato. In quattro anni sono riuscite a risollevarsi, grazie ai tagli permessi dalla bancarotta e alla ripresa del mercato americano dell’auto, riconquistando – se non il primato nel settore – almeno la capacità di competere e fare profitti. Riuscirà la città a fare lo stesso quando l’economia Usa imboccherà con decisione la via della crescita? Il compito è molto più difficile. La congiuntura, è vero, mostra qualche segnale di miglioramento: il tasso di disoccupazione in città è sceso sotto il 20% rispetto al 25% toccato all’apice della crisi, e i prezzi delle case hanno cominciato sia pur timidamente a risalire. Ma i veri problemi della città sono strutturali e non congiunturali.

Sessant’anni di declino.
Al picco del 1950, quando con 1,85 milioni di abitanti Detroit era la quarta metropoli americana, è seguito un declino finora inarrestabile: l’esodo della popolazione bianca verso i sobborghi più ricchi, accelerato dopo le proteste dei neri a fine anni 60, ha impoverito la città riducendo i redditi tassabili e ha innescato un circolo vizioso: il municipio ha sempre meno fondi per pagare i servizi pubblici, il che ha reso la città sempre meno accogliente e ha favorito l’emigrazione. «L’emigrazione di gran parte della classe media verso i sobborghi ha avuto come conseguenza la chiusura e l’abbandono di uffici e negozi in centro. La popolazione rimasta era più povera e più dipendente da servizi pubblici che la città era sempre meno in grado di fornire» sintetizzava uno studio dell’Aia – l’associazione Usa degli architetti e urbanisti – del 2008. La crisi dell’auto, con la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro (ben prima dell’ultima recessione), ha fatto il resto; le immagini di edifici in rovina e di interi isolati abbandonati sono diventate uno degli emblemi più tipici della crisi industriale americana.

I tentativi di rilancio.
Ogni tentativo di rivitalizzare la città si è rivelato vano – dalla costruzione del Renaissance Center (ora sede di General Motors) negli anni 80 alle proposte dell’Aia di rimpicciolire Detroit e trasformarla in una metropoli verde utilizzando le aree dismesse. I trasferimenti di uffici in centro, come la sede della Quicken Loans o alcuni uffici di Chrysler, sono una goccia nel mare e troppo recenti per avere un impatto; lo stesso vale per la ripresa congiunturale del settore auto: non dimentichiamo che la grande maggioranza delle fabbriche (e anche le sedi principali di Ford e Chrysler) sono nei sobborghi dove i dipendenti vivono e pagano le tasse (più basse che in centro).

La crisi politica.
Dal punto di vista politico, la corruzione endemica (il sindaco dei primi anni 2000, il nero Kwame Kirkpatrick, è in carcere per truffa) non ha certo agevolato i processi decisionali: le scelte più difficili e impopolari sono state rinviate per anni. Il sindaco in carica, l’ex campione di basket e poi imprenditore Dave Bing, aveva destato grandi speranze ma non è riuscito a smuovere la paralisi dei veti incrociati. Nel 2011 il cambio della guardia a Lansing (capitale del Michigan) tra la democratica Jennifer Granholm e il repubblicano Snyder ha introdotto una nuova variabile: il conflitto politico tra la città, nera e democratica, e lo stato, ora repubblicano e a maggioranza bianca. È stato proprio Snyder a nominare l’emergency manager commissariando di fatto sindaco e consiglio comunale e sarà lui, come detto, a gestire la procedura di Chapter 9. In un video sul sito ufficiale del Michigan, Snyder ha detto: “Parliamoci chiaro, Detroit è fallita”, ma ha definito il fallimento “l’opportunità di ripartire da zero”.

 

Tratto da “Il Sole 24 Ore”

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