Euro, quelli che “ci vuole più Europa”

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Alla vigilia delle elezioni europee, leggiamo insieme questo articolo scritto dal Professor Alberto Bagnai che attacca, per l’ennesima volta, la mentalità ultra-europeista che rischia di condannarci ad un futuro di stagnazione economica perenne (guest post)

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Ogni epoca ha i suoi crociati. A noi son toccati i “federalisti europei”. Sono quelli che son convinti che “Europa lo vuole”, e che qualsiasi mezzo sia lecito, anche l’uso della violenza, per guidare il gregge europeo verso la Gerusalemme Celeste degli Stati Uniti d’Europa.

Un approccio che ho descritto nel post precedente, e la cui logica ci è stata documentata autorevolmente dal dott. Castaldi, nel cui saggio rinveniamo appunto che: “l’unione monetaria è stata pensata anche come strumento per arrivare all’unione politica” (p. 2). L’inversione fra mezzi e fini è del tutto evidente: la moneta, come segno e strumento di esercizio della sovranità, richiede, appunto, un sovrano. Creare la moneta per creare lo Stato è come tornire uno scettro per instaurare una monarchia. Gli Stati Uniti d’Europa sono un progetto antistorico, il loro fallimento è sotto i nostri occhi, ed è inutile tornarci sopra dopo le parole definitive per autorevolezza e ironia con le quali Aldo Giannuli ha inchiodato il coperchio della loro bara. Vale però la pena di rileggerle, queste parole, per capire quanta sbalorditiva superficialità si celi dietro queste due parolette: “più Europa”.

Intendiamoci: così come ogni epoca ha i suoi crociati, ogni epoca ha le sue armi. I crociati d’antan si servivano di scomodi spadoni a due mani. Quelli odierni esercitano la violenza in un modo più confortevole, asettico, indiretto: provocando in modo deliberato crisi economiche che costringano il gregge ad andare dove pastore vuole. Funziona ugualmente, e non ti vengono i calli.

Siccome voglio molto bene ai miei affezionatissimi troll, che sono per me fonte di inesauribile ilarità, mi affretto a sconsigliarli dall’avviarsi sulla strada del “Bagnai complottista!”. Il pregevole studio del dott. Castaldi, sopra citato, ci ricorda infatti che i federalisti erano veramente convinti, e tuttora lo sono, che una mobilitazione dei cittadini europei a favore del progetto federale richiedesse “l’emergere di crisi specifiche dei poteri nazionali, ovvero di problemi percepiti socialmente che non potevano trovare soluzione nel quadro nazionale. L’emergere di tali crisi costituiva la finestra di opportunità per l’avanzamento del processo di unificazione, e ne determinava la possibile direzione: una crisi economica poteva permettere avanzamenti sul terreno dell’integrazione economica…” (p. 4). Aggiungo, laddove ci fossero dubbi, che il prof. Zingales ha parlato a questo proposito di progetto criminale, basato sull’uso di crisi premeditate.

Parole molto forti, e anche, occorre dirlo, pronunciate col senno di poi, in un senso molto specifico che mi affretto a precisare. Certo, noi ora possiamo vedere quanta morte e quanta esclusione sociale abbia provocato la crisi. Va anche detto però che essa viene al termine di un periodo di trent’anni in cui, per vari motivi e in vari modi (anche attraverso l’integrazione monetaria), la posizione delle classi subalterne si è indebolita (lo testimonia il crollo della quota salari). Nell’ottica degli anni ’60, quella nella quale si ponevano gli Spinelli e gli Albertini, con economie in vigorosa crescita, con uno stato sociale in fase di costruzione e non di smantellamento, la leggerezza con la quale i “padri nobili” parlavano di “contraddizioni” è del tutto veniale: sicuramente loro non potevano immaginare che stessero parlando del suicidio di tanti loro simili, della distruzione del futuro di intere generazioni. Sono anche scusabili quelli che oggi si pronunciano in merito non avendo esperienze di ricerca documentate in ambito economico, che consentano loro di pronunciarsi in modo credibile e autorevole sui legami fra moneta unica, crisi e politiche deflazionistiche.

Questo legame però ai “padri nobili” era chiaro, e quindi molto probabilmente un giurista parlerebbe, a loro proposito, di dolo eventuale. Io preferisco parlare di paternalismo (una élite si è presa il compito di definire gli obiettivi della collettività senza lasciare che quest’ultima si esprimesse nell’ambito di un formale processo democratico) e di autoritarismo (per raggiungere l’obiettivo non si è esitato a ricorrere alla violenza, se pure di tipo economico e non fisico). Il vero nodo della costruzione europea attuale è questo, ed è un nodo gordiano: la spada l’avete voi, e potete decidere di usarla alle prossime elezioni. La scelta è molto semplice: da una parte l’Europa, e dall’altra l’euro. Il nodo non è (solo) economico, è (soprattutto) politico. La palese inversione fra mezzi e fini fa sì che in questo momento rivendichi per sé la patente di “europeista” proprio chi difende acriticamente il progetto eurista, cioè quanto sta distruggendo l’Europa. La Storia è qualche volta ironica, ma ha un caratteraccio, e non perdona. Ricordiamocene.

Naturalmente una crociata presuppone una fede, che fatalmente si identifica con l’assenza di spirito critico, di apertura ad alternative. Non puoi servire Dio e Mammona. Non puoi servire Bruxelles e Roma. Il fideismo europeista è qualcosa di spettacolare: quando si passa dal biascicare “più Europa” ad articolare argomenti, si vede subito cosa c’è che non va, il che però non scoraggia i crociati, perché, come è ben noto, credo quia absurdum. Rimane il fatto che qualsiasi proposta di “più Europa” comporta, sul piano tecnico, una volontà politica solidale che in Europa è sempre mancata e che le tensioni causate dalla crisi hanno amplificato in modo ormai irreversibile. Le tre strade comunemente indicate: (1) una “Bce simile alla Fed”; (2) gli eurobond di qualsiasi tipo; (3) politiche espansive del Nord; urtano tutte contro un limite che agli occhi dell’economista risulta ovvio. Tutte e tre comportano il trasferimento di risorse dal Nord al Sud, esattamente come comporterebbe trasferimenti simili l’esistenza di uno Stato federale europeo (che alla fine sarebbe politicamente insostenibile, esattamente come abbiamo visto da noi dopo svariate decine di anni di vano “più Italia” basato sui trasferimenti dal Nord e l’emigrazione dal Sud).

Una Bce più inflazionistica trasferirebbe risorse dai creditori ai debitori (sapete bene che l’inflazione svantaggia il creditore, che presta moneta “pesante” e viene rimborsato in moneta “leggera”, cioè dotata di minor potere d’acquisto); qualsiasi forma di mutualizzazione del debito comporterebbe uguali trasferimenti di risorse o garanzie da parte dei paesi del Nord; lo stesso vale, implicitamente, per qualsiasi politica espansiva del Nord. Il vantaggio competitivo della Germania deriva, come ammettono gli stessi economisti tedeschi, dalla precarizzazione del lavoro e dalla compressione dei salari. Compressione dei salari significa espansione dei profitti. Ci andate voi dai capitalisti tedeschi a dirgli che devono ridurre i propri profitti e pagare di più i propri lavoratori per fare un piacere a noi? Buona fortuna. Non bisogna mai dimenticare che qui la partita non è solo Italia-Germania (4 a 3), ma anche capitale-lavoro (1 a 0, perché l’arbitro, lo Stato, in questo momento gioca da una parte ben precisa).

Quindi la fede federalista, la granitica certezza che il “più Europa” ci salverà, l’assoluta, incrollabile convinzione che anche se la strada è lunga, la meta del “più Europa” sia così santa da giustificare qualche lieve danno collaterale (che tanto riguarda gli altri), si sbriciola come un wafer contro il granito della logica economica e politica: non si son mai visti dei vinti minacciare credibilmente i vincitori, dopo essersi legati le mani dietro la schiena col cambio fisso. Occorre sostituire a questo mondo di certezze astratte una riflessione più critica e articolata sui tanti ruoli che il tasso di cambio svolge, non solo nel riequilibrare i conti esteri, ma anche nel segnalare squilibri finanziari, favorendo una corretta allocazione delle risorse, e nell’assicurare il rispetto degli accordi internazionali, compensando le politiche di dumping salariale dei partner. Un primo contributo in questo senso, se interessa, è qui. Ai liberisti per i quali i problemi strutturali si risolvono impedendo al mercato dei cambi di funzionare mandiamo una cartolina affettuosa dalla frontiera della ricerca (un posto un po’ inospitale, ma che merita una visita).

Va anche detto che dietro a ogni crociata non c’è solo la fede, ma, spesso e volentieri, anche il soldo. Quando nel 1204 i veneziani entrarono con la nota buona grazia a Costantinopoli lo fecero, certo, per combattere la corruzione dei bizantini (come vedete, l’argomento è tutt’altro che originale), ma anche per portarsi qualche souvenir a casa. Poverini, avevano fatto tanta strada, mossi dal loro intento moralizzatore! Ci sarebbe allora da riflettere, ogni tanto, su quale credito dare a studi e istituzioni di ricerca che dalla greppia europea ricevono abbondante foraggio. Quello che vale per il famoso studio One market, one money, finanziato da Bruxelles, e che già all’epoca venne confutato da studiosi indipendenti, continua a valere per tutte le valutazioni emesse da studiosi e think tank in palese, quanto inconfessato, conflitto di interessi. In questo l’economia deve fare ancora progressi. Nelle riviste mediche chi scrive deve chiarire se è stato pagato da una casa farmaceutica. In quelle economiche non sei sempre costretto a dire chi ti paga.

Il che spiega molte cose, delle quali, magari, parliamo un’altra volta.

 

Articolo tratto da “Il Fatto Quotidiano”

 

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