Fact checking alle argomentazioni pro-lira

lira lire

(di Domenico Di Cresce)

0) PREMESSA.. 3

Le argomentazioni sul tema Euro si-Euro no. Esigenza di una analisi serena. 3

1) Origini della crisi dell’euro:la “tempesta perfetta” dell’estate-autunno 2011 ed i suoi lunghi strascichi4

2) Il ritorno alle valute nazionali sarebbe un salto nel buio?. 5

3) Col ritorno alla lira vi sarebbe una svalutazione rovinosa? Che succederebbe ai tassi del debito pubblico ed all’inflazione?  6

4) Col ritorno alla lira l’economia italiana acquisterebbe o perderebbe competitività?. 7

5) Che succederebbe ai conti pubblici italiani col ritorno alla lira?. 8

6) La questione del c.d. vincolo esterno. 11

7) Strategie alternative all’uscita dall’euro. 12

0) PREMESSA

Le argomentazioni sul tema Euro si-Euro no. Esigenza di una analisi serena

 

Da tempo scriviamo e leggiamo analisi e pareri sulla questione-Euro ma la presente riflessione vuole, nelle nostre intenzioni, distinguersi per pacatezza ed apertura al confronto. Pertanto, ci si propone di evitare ogni tono di supponenza e di acredine ma anche e soprattutto ogni conclusione apodittica, convinti che nessuno di noi sia depositario assoluto della verità ma che ognuno sia chiamato ad un proficuo contributo.

 

Cercheremo anche di capire ed analizzare i difetti d’origine della moneta unica e di scandagliare possibili soluzioni “in corsa”.


 

1) Origini della crisi dell’euro:la “tempesta perfetta” dell’estate-autunno 2011 ed i suoi lunghi strascichi

 

E’ ricorrente l’affermazione secondo cui “la crisi europea sarebbe legata ai debiti ed agli sprechi dei Paesi periferici”. In effetti, tale conclusione, criticata aspramente da molti analisti, appare molto riduttiva, in quanto basata su un’analisi monocausale e che non approfondisce gli eventi e le concause scatenanti della crisi dell’Eurozona, che si profilò all’orizzonte alla fine di maggio 2011, con l’esplosione dei tassi di interesse dei Paesi c.d. periferici dell’area valutaria (Spagna, Portogallo,Irlanda,Grecia ed Italia).

Invero, sin dall’inverno 2009/10 si erano manifestate le prime avvisaglie della “crisi degli spread”, allorquando  gli investitori iniziarono ad allontanarsi irreversibilmente dal debito sovrano greco, in seguito all’evento detonatore della scoperta dei “trucchi contabili” apportati dal governo di Atene per conseguire l’ingresso nell’Eurozona, avvenuto nel 2003.

Nel primo semestre del 2010, infatti, il differenziale di rendimento fra i Bund tedeschi e i titoli ellenici prese il largo e crebbe in modo esponenziale, mentre sempre nel corso del 2010 si allargò pesantemente la forbice dello spread fra i titoli di riferimento (quelli tedeschi) e gli omologhi emessi dall’Irlanda del sud, travolta dalla crisi delle banche e dallo Stato portoghese. Aumenti di differenziale più limitati interessarono, soprattutto nel successivo inverno 2010/11, i titoli di Stato belga, spagnoli ed italiani. La situazione, tuttavia, si aggravò oltremodo solo nella tarda primavera 2011 (segnatamente, nei mesi di maggio e giugno 2011), quando le tensioni sui titoli di Stato italiani, che nel biennio precedente erano rimasti ai margini della tempesta, di colpo esplosero. Nonostante le misure pro-austerity, messe in campo dal governo italiano fra l’estate e l’autunno 2011, sfociate nella stipula del draconiano “Fiscal Compact”, la pressione sui titoli dell’euro-periferia non si allentò mai, per arrivare alle punte riscontrate fra la prima e la seconda decade di novembre 2011, quando lo Stato italiano fu costretto ad offrire circa l’8% di rendimento sui propri Tds ed addirittura si verificò, quale sintomo di una condizione di pre-default, una vera e propria inversione della curva dei rendimenti,per cui gli investitori pretendevano dallo Stato italiano un tasso d’interesse sul breve termine più elevato che sul lungo,non ponendosi neanche il problema della solvibilità sul lungo termine…

Nonostante le severe misure (purtroppo pro-cicliche, vista la difficile congiuntura internazionale)messe in campo da tutti i Paesi dell’euro-periferia, la pressione sui titoli dei Paesi considerati a rischio- che nell’aprile/giugno 2012 ebbe una nuova recrudescenza, stavolta con epicentro spagnolo) si allentò solo nell’estate 2012, quando le affermazioni del Governatore della BCE Mario Draghi rassicurarono i traders circa il rischio di un break-up dell’eurozona.

Ricordare questi eventi è fondamentale anche in considerazione delle conclusioni che da essi si possono trarre:

a) la crisi dell’Eurozona del 2011/12 si manifestò sotto forma di crisi dei debiti sovrani dell’euro-periferia ma fu scatenata dalla consapevolezza da parte dei mercati della fragilità della costruzione-euro, atteso che l’Eurozona fra il 2010 ed il 2011 aveva dimostrato, col suo atteggiamento riluttante ed ondivago, la “sacrificabilità” dei Paesi periferici, a cominciare dalla Grecia, il cui salvataggio fu a lungo rinviato;

b) l’aumento dei tassi d’interesse sui debiti sovrani dei Paesi più indebitati e fragili era il modo con cui i traders prezzavano il RISCHIO-BREAK-UP DELL’EUROZONA, dando luogo a vere manifestazioni di panico. Quest’ultimo aspetto va ricordato, perché è altamente prevedibile che, se per un motivo o per un altro la rottura dell’area-euro tornasse un’ipotesi all’ordine del giorno, si assisterebbe ad un’analoga fuga dal debito dei Paesi deboli, tra cui l’Italia, con prospettive di default collegabili, ad esempio, ad un’uscita unilaterale. Non si vede perché i mercati dovrebbero reagire diversamente da quanto avvenuto nel 2011/12 se l’Italia o chi per lei un domani annunciasse il ritorno alla moneta nazionale…

2) Il ritorno alle valute nazionali sarebbe un salto nel buio?

 

Lo scenario del break-up di un’area valutaria grande quanto l’Eurozona rappresenterebbe, innegabilmente, UN FATTO INEDITO e già solo questo rilievo fornisce, di per sé, credito a chi ritiene che una dissoluzione dell’area-euro darebbe luogo a situazioni imprevedibili ed assai difficilmente governabili.

Vediamo perché. In primo luogo, il paragone con l’uscita della lira (e della sterlina) dallo SME, avvenuto nel settembre 1992, appare di problematica sostenibilità. Lo SME, infatti, non era un’area monetaria (l’ECU era una mera unità contabile e nessuno ha mai visto un ECU circolare!) ma un semplice sistema di cambi fissi. Ma c’è dell’altro. Una volta decisa, per forza di cose, l’uscita della lira dallo SME, le autorità italiane proseguirono con decisione il cammino dell’euroconvergenza, attuando politiche di moderazione salariale, di contenimento della spesa pubblica, privatizzazioni di un certo rilievo, riforme del sistema pensionistico risanamento dei conti pubblici ecc. ecc.

Di contro, la rottura dell’Eurozona, secondo lo scenario più probabile, avverrebbe sotto ben altre spinte, certamente disgregatrici e con ben altro clima. E’ poco plausibile che regnerebbe la concordia fra gli Stati europei e purtroppo potrebbero diventare attuali, a giudizio di molti, ben altri scenari, come l’insorgere di guerre monetarie ma forse persino doganali, in caso di collasso dell’Unione Europea e di rivalità economiche fra nazioni europee. Uno scenario, quindi, più da anni 30’ che da anni 90’ del secolo scorso, in cui l’Italia potrebbe avere la tentazione di fare quel che non fece nel 1992, ossia “la nave pirata”, che certo non si preoccupa dei processi di euro-convergenza, a quel punto, per la gioia di molti, obsoleti.

Tale scenario è sin d’ora accreditabile, se pensiamo ad atteggiamenti ed affermazioni frequenti già adesso fra i nostri politici.


 

3) Col ritorno alla lira vi sarebbe una svalutazione rovinosa? Che succederebbe ai tassi del debito pubblico ed all’inflazione?

 

A nostro parere, nessuna persona intellettualmente onesta può rispondere con sicurezza a queste domande ma possiamo ipotizzare che:

1) un’inflazione al 2-3%, quale quella dell’era-euro, potremmo tranquillamente scordarcela. La “Nuova Lira” si svaluterebbe sull’euro in misura ragguardevole ma il vero problema non sarebbe tanto questo, bensì quello legato alla fluttuazione successiva, legata al rischio di cambio. Molti, infatti, sembrano dimenticare, curiosamente, che la lira, quando uscì di scena, non era debole solo rispetto al marco o al franco svizzero ma era in assoluto una delle valute più deboli dell’area OCSE. E’ la svalutazione successiva, più che quella iniziale, il vero problema, perché se è vero che la Banca d’Italia potrebbe sostenere, entro certi limiti, la nuova moneta, è altrettanto vero che tale difesa non può andare avanti a lungo senza dissanguare le riserve a disposizione (lo insegna proprio il trascurato precedente del 1992).

Quanto agli effetti di un’inflazione interna sul risparmio delle famiglie, la questione è così lampante nella sua problematica rilevanza che si dubita valga la pena anche solo farne cenno;

2) qualche persona di buon senso pensa forse che il debito pubblico italiano, col ritorno alla lira ed alla tanto decantata sovranità monetaria, sia rifinanziabile ai tassi attuali? Crediamo proprio di no, se solo si considera che quando c’era la lira i tassi d’interesse era molto più di quelli attuali, che pure ci sembrano altissimi:

(da Le vere cause del debito pubblico italiano)

Nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano? Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%.

Nel 1993 il divario tra i tassi d’interesse fu addirittura triplo, il 13% in Italia contro il 4,4% della zona euro e il 4,3% della Ue. La crescita dei debiti pubblici dipende da molte cause, soprattutto dalla necessità di sostenere le crisi e la caduta dei profitti privati che, dal ’74-75, caratterizzano ciclicamente i Paesi più avanzati. Tuttavia, è evidente che politiche sbagliate di finanza pubblica possono rendere ingestibile la situazione del debito, come è avvenuto in Italia. Visto che l’entità dei tassi d’interesse sui titoli di stato, ovvero quanto lo Stato paga per avere un prestito, dipende dalla domanda dei titoli stessi, l’eliminazione di una componente importante della domanda, quale è la Banca centrale, ha avuto l’effetto di far schizzare verso l’alto gli interessi e, quindi, di far esplodere il debito totale”.

Non a caso, si stima che nel 1996 (con la lira) il 12% del PIL italiano venisse destinato a pagare gli interessi (ben più alti di quelli attuali) sul debito pubblico. Ma vi è di più: fateci caso, i fautori del ritorno alla lira adombrano sempre, in modo occulto o palese, la necessità di ristrutturare il debito pubblico. Non sono stupidi: sanno benissimo che quest’ultimo, col ritorno alla carta straccia che tanto si rimpiange, con molte probabilità non sarebbe rifinanziabile o lo sarebbe a condizioni insostenibili.

E infatti non è un caso che l’esplosione dei tassi d’interesse richiesti per finanziare il debito pubblico si sia verificata quando tutto faceva ipotizzare un break-up dell’Eurozona ed un ritorno alle monetine mediterranee.

In definitiva, avere la possibilità di stampare moneta non risolve alcun problema SE QUELLA MONETA NON LA VUOLE NESSUNO. Anzi, i problemi si aggravano se sei un Paese privo di materie prime e devi importare un bel po’. Ma anche su questo, si sa, i “liristi” sorvolano.

4) Col ritorno alla lira l’economia italiana acquisterebbe o perderebbe competitività?

 

La domanda è legittima e fondata e proprio per questo merita una risposta articolata.

Con molte probabilità, il ritorno ad una valuta molto debole e, come dimostra la storia, assai propensa ad indebolirsi nel tempo, aiuterebbe le esportazioni, anche se è corretto dire che, ad onta dei catastrofismi dei nostalgici della lira, l’Italia è attualmente il secondo Paese esportatore dell’Eurozona, il che conferma che NON SERVE NECESSARIAMENTE AVERE CARTA STRACCIA PER ESSERE COMPETITIVI. Certo, con la lira un Paese povero di  materie prime avrebbe l’inevitabile problema di importare i necessari inputs produttivi. Ma non è questo il punto. Il fatto è che nessuna persona intellettualmente onesta può escludere che la fine dell’Eurozona implichi, de facto, il tramonto del Mercato Comune europeo, in quanto in una sorta di “sindrome jugoslava”- ovviamente, non intesa come conflitto armato, ci mancherebbe!- i Paesi “forti”, sentendosi minacciati dalle svalutazioni operate dalla periferia (l’Italia ha una vasta tradizione al riguardo), possano decidere di ripudiare i Trattati su cui si fonda l’U.E. e di introdurre DAZI DOGANALI.

Si direbbe quindi che i fautori del ritorno alla lira sottovalutino il rischio che LA FINE DELL’EURO IMPLICHI LA FINE DELL’U.E. ed un ritorno, magari graduale, alla situazione antecedente al Trattato di Roma del 1950.

E’ un rischio che è difficile ritenere remoto, perché la storia insegna che i rancori fra nazioni e popoli confinanti possono pregiudicare conquiste che sembravano irreversibili.


 

5) Che succederebbe ai conti pubblici italiani col ritorno alla lira?

 

Pur evitando di arrogarsi doti divinatorie, sempre atteso che l’uscita da un’unione monetaria con le caratteristiche dell’Eurozona rappresenterebbe un fatto inedito e non paragonabile, come spesso fanno i “liristi”, all’uscita dallo SME (per le motivazioni già esposte) o alla fine della c.d. unione monetaria latina, al punto che qualche commentatore anglosassone intelligentemente ha parlato di “operazione paragonabile al voler rimettere il dentifricio in un tubetto”, si possono fare alcune considerazioni,  partendo da un utile raffronto fa la crisi che portò all’uscita dell’Italia dallo SME, nel 1992 e quella che ha investito l’area sud dell’Eurozona. Il tema è approfondito nel seguente articolo, che, al di là dei toni concitati e polemici che non sono proprio il massimo, offre una chiave di lettura: Euro: non sono un criminale. Le omissioni di Bagnai e Borghi.

 Vorrei oggi confutare in modo argomentato quanto dichiarato nel video ed in particolare segnalare le omissioni che gli economisti Bagnai e Borghi commettono nel paragonare la situazione attuale a quella del 1992.

Nel 1992 (periodo di Tangentopoli) l’imperativo categorico era recuperare un minimo di credibilità sui mercati, alleggerire il peso degli interessi che cresceva a ritmo esponenziale facendo volare il deficit. Una spirale infernale, poiché l’alto debito costringeva il Tesoro a offrire rendimenti sui propri titoli che superavano il 12,5 per cento. In questa situazione di grande fragilità partì l’attacco alla lira. L’antipasto venne servito il 10 luglio con una manovra correttiva da 30mila miliardi delle vecchie lire, con tanto di patrimoniale del 6 per mille sui depositi bancari e postali. Il 4 settembre, all’apertura del mercato dei cambi, la lira crollava a quota 765,50 contro il marco (poi avrebbe raggiunto quota 800). Vano anche l’ennesimo tentativo della Banca d’Italia che portava il tasso di sconto al 15%, un livello mai raggiunto dal 1985.

Domenica 13 settembre 1992. Il presidente del Consiglio, Giuliano Amato, annuncia in tv la svalutazione della lira. Dopo un’ intera estate di tensioni e dopo una estenuante, costosa battaglia per difendere il cambio, la moneta italiana perde il 7 per cento del suo valore, frutto di una svalutazione del 3,5 per cento e di una rivalutazione di egual misura di tutte le altre monete europee. L’ indomani la Bundesbank agisce. Ma sui mercati le tensioni non si placano. Tre giorni più tardi, un vertice notturno convocato d’ urgenza a Bruxelles cerca di trovare i rimedi per riportare ordine nei cambi. E’ una seduta drammatica: la sterlina esce dallo Sme; la lira deve autosospendersi.

Quali le differenze tra la crisi del 1992-1993 e quella del 2008-2009? (come emerge da uno studio della Banca d’Italia).

La crisi del 1992-93 è “endogena”: si tratta del redde rationem di oltre due decenni di politiche economiche figlie della temperie sociale e politica iniziata alla fine degli anni Sessanta e proseguita per tutto il decennio Settanta. Dal momento in cui il debito pubblico che ne risulta inizia a essere collocato presso investitori stranieri, verso la metà degli anni Ottanta, parte un conto alla rovescia Il sistema politico detto della Prima Repubblica, ormai corroso dall’interno, implode rovinosamente pochi mesi dopo.

 

La crisi del 2008-09 è certamente “esogena”: è una crisi statunitense, figlia di errori politici protrattisi per molti anni in quel paese nel governo della moneta e nella regolazione della finanza, una crisi che contagia il resto del mondo con rapidità fulminea, traducendosi per tutti nella paralisi dei mercati monetari e, di conseguenza, in un irrigidimento dei circuiti finanziari. Le conseguenze sull’economia reale sono inevitabili e acute.

 

Fra il 1991 e il 1995 la lira perde quasi un terzo (svalutazione =33%) del suo valore esterno, cioè della sua quotazione media sui mercati dei cambi. Nello stesso periodo, ilvalore interno della lira, cioè il potere d’acquisto dei consumatori italiani, si riduce solo di un sesto (inflazione =17%). È, questo, un evento inusuale. In occasione dell’altro ciclo di acuta svalutazione del cambio della nostra moneta, dal 1972 al 1976, la relazione fra le due variazioni fu opposta: a una perdita di valore esterno di poco più di un terzo (svalutazione=33%)corrispose una perdita di valore interno molto maggiore, quasi pari alla metà(inflazione=50%).

Che cosa ha impedito, all’indomani della crisi valutaria del 1992, la trasmissione amplificata degli impulsi di svalutazione del cambio ai prezzi interni? Tre elementi:

  1. una profonda recessione della domanda interna, «da sfiducia»;
  2. il favore dei prezzi internazionali;
  3. la moderazione salariale, in particolare il tempestivo disinnesco delle indicizzazioni.

Nel quadriennio fra il 1991 e il 1995 le retribuzioni pro capite in termini reali diminuiscono del 3,3 per cento nel complesso dell’economia; restano immutate nell’industria, dove la produttività progredisce quasi dell’8 per cento. In termini nominali, il costo complessivo del lavoro per unità di prodotto nell’industria aumenta in quattro anni solo di poco più del 2 per cento. Vent’anni prima, nell’altro quadriennio di drammatico indebolimento del cambio della lira, dal 1972 al 1976, quella stessa variabile era cresciuta del 94 per cento! In più il governo Amato che avvia una manovra di 95.000 miliardi di lire (in moneta odierna sarebbero 150.000 miliardi di lire o 80 miliardi di euro. Il debito pubblico era il 105% del Pil.

L’inflazione tra il 92 ed il 93 risulta del 4,7% e poi inizia a calare e nel mese di giugno scende sotto il 4%. Il rendimento di un titolo dello Stato a dieci anni è del 5,7 per cento per i Btp italiani e del 5,3 per i bund tedeschi.

 

In conclusione:

1992-94 Svalutazione concordata 33% con profonda recessione della domanda interna, prezzi internazionali in calo, salari reali in calo, debito pubblico 105% Pil, spread 40, manovra da 80 miliardi di euro. Interessi sui Buoni del tesoro 12,5%. Risultato inflazione 16%

2012-14 Recessione domanda interna, prezzi internazionali crescenti (anche a causa del deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro), salari non più comprimibili (anzi forte richiesta per una loro crescita causa elevatissima pressione fiscale, debito pubblico 120% Pil, spread 400-500, nessuna manovra prevista. Cosa è lecito aspettarsi? E’ evidente che non potrà che esserci che un alto tasso di inflazione (anche del 20-30%) come già avvenuto nel quadriennio 1972-76 (quando fu del 50%).

 

Bagnai mi definisce criminale per questa mia posizione evidentemente perché non ha argomenti per contrastare questo punto di vista.

 

Quanto a Borghi sostiene che l’alto tasso di disoccupazione sarebbe un antidoto alla crescita dell’inflazione. Come dire che se usciamo dall’euro, ad esempio passando dall’attuale 10% di disoccupazione al 20% , forse non avremo inflazione. Alla faccia dei disoccupati! “.

 

Tabella riassuntiva

1971-1976

1991-1995

2011-2015*

Svalutazione

33%

33% (concordata)

30% (?)

Recessione

no

si

si

Prezzi internazionali

crescenti

calanti

crescenti

Salari reali

crescenti

calanti

crescenti

Debito pubblico

53%

105%

120%

Spread

40

400-500

Manovre ulteriori

80M

Non previste

Inflazione

50%

16%

?

* in caso di uscita dall’euro”

Ma vi sono anche altre osservazioni da svolgere, alcune delle quali sono state già accennate. Pensare di poter rifinanziare il nostro (mastodontico) debito pubblico ai tassi d’interesse medi del 2013 è un’idea chimerica. E’ presumibile, purtroppo, che il rifinanziamento, a seguito dell’uscita dall’euro, avverrà a tassi ben più elevati di quelli attuali (del resto, questi ultimi con Monna Lira non erano neanche lontanamente avvicinabili sin dai rimpianti anni 80’!), né si comprende come la riacquistata sovranità monetaria possa consentire allo Stato italiano di ovviare a quest’aggravio, che potrebbe portare ad un rapido default da insostenibilità del debito sovrano (esperienza che stavamo vivendo a fine 2011, quando l’ipotesi-break-up dell’Eurozona era reputata realistica).


 

6) La questione del c.d. vincolo esterno

 

Si è spesso letto che l’adesione e la successiva appartenenza all’Eurozona hanno costituito un’imprescindibile forzante esterna, senza la quale l’Italia ben difficilmente avrebbe intrapreso il risanamento economico, avviato nel 1992 e si sarebbe invece avviata verso scenari argentini. L’argomento è fondato e lo dimostra la nostra storia: senza lo stimolo – vincolo incarnato dalla necessità di rientrare nei parametri richiesti dal (pur discutibile) Trattato di Maastricht del 1991 è arduo ipotizzare che i governi italiani avrebbero intrapreso quel cammino di risanamento dei conti pubblici, che- NON DIMENTICHIAMOLO MAI!- è iniziato nell’estate 92’, ossia in un momento in cui, benché avessimo ancora la rimpianta (sic!) lira, lo Stato italiano andò vicinissimo al dichiarare default, nonostante il debito pubblico, in termini assoluti, fosse meno grande di quello attuale, a causa dell’esplosione dei tassi di interesse, giunti nell’agosto/settembre 1992 a livelli ancora più alti di quelli del novembre 2011 e della fuga degli investitori internazionali. Default che- ALTRA CIRCOSTANZA PERENNEMENTE TACIUTA DAI “LIRISTI”- nel 1992 venne evitato dal governo italiano SOLO CON UN PRELIEVO FORZOSO SUI CONTI CORRENTI.

Ma vi è di più: senza l’euro-convergenza  successiva è improbabile che vi sarebbero stati i pur parziali tentativi riformisti degli anni 90’, come le liberalizzazioni/privatizzazioni del biennio 1992/93, la successiva riforma pensionistica del 1995, la temporanea riduzione del debito pubblico e il miglioramento del rapporto deficit/PIL. Un cammino virtuoso che, senza la scelta pro-Europa compiuta in quel decennio, non sarebbe stato percorso da un’Italia che, per motivi geopolitici e culturali, ha sempre avuto la tendenza a porsi ai margini dell’Occidente e a subire la “trazione verso sud”, non sempre benefica.

Certo, dopo l’avvento dell’euro i governi italiani, così come quelli mediterranei in genere, si sono “seduti” sui benefici legati alla possibilità di rifinanziare il proprio debito sovrano a tassi “tedeschi” ma di questa inerzia sarebbe ingiusto incolpare l’Europa centrosettentrionale.


 

7) Strategie alternative all’uscita dall’euro

 

Sebbene un pizzico di idealismo non sia, ad avviso di chi scrive, da reputarsi deleterio (dopotutto, i padri fondatori di quell’Europa che i “liristi” vorrebbero sacrificare in nome dei sempiterni Stati nazionali), chi parla non è un idealista a senso unico e riconosce non solo i tanti difetti “genetici” dell’Eurozona ma anche le gravi pecche e distorsioni della politica imposta dai governi del centro-nord Europa ai Paesi c.d. periferici.

Se da un lato l’esigenza di risanamento dei conti pubblici dei Paesi mediterranei era ed è ineludibile, è pur vero che l’aver imposto tempi di rientro troppo brevi e non negoziabili agli Stati considerabili come “weak” e l’averli costretti a pesanti e deleterie politiche pro-cicliche si è rivelando controproducente e molto dannoso per ogni ideale di solidarietà fra europei.

Tuttavia, sussistono alcuni spazi per strategie alternative all’uscita unilaterale dall’Eurozona dei Paesi più in difficoltà.

In primo luogo, diversamente da quanto accadde nell’autunno 2011, in occasione dello scoppio della crisi dell’Eurozona, la Francia sembra meno propensa a mantenere ad ogni costo il suo tradizionale asse con la Germania, poiché anche i francesi sono invischiati in una pesante crisi recessiva, pur senza vivere l’estrema debolezza dei Paesi più meridionali e tradizionalmente fragili. Questi ultimi, al fine di fronteggiare la persistente rigidità del gruppo di governi del centro-nord, capeggiati da Germania e Finlandia, ben potrebbero, per la sussistenza di condizioni politiche non ipotizzabili nel 2011, allearsi col governo socialista francese per conseguire una revisione delle politiche volute sulla spinta della dirigenza tedesca.

Va da sé che, in caso di persistente renitenza tedesca nei confronti di qualsiasi temperamento o concessione, sempre contando sull’appoggio della Francia, Paese fondatore dell’U.E. e seconda economia dell’Eurozona, si dovrà ipotizzare una soluzione molto diversa dalla dissoluzione tout court dell’area valutaria attuale, quale la creazione di un Euro 2.0 o euro del sud.

Soluzione, questa, che merita una riserva di approfondimento e che potrebbe essere considerata come alternativa allo status quo ante, per cui sarebbe degna di maggior attenzione di quella finora dedicatale.

Altri articoli

Lascia un commento per primo

Leave a comment

Your email address will not be published.

*