Islanda: “rivoluzione contro le banche”? Gestita dai banchieri internazionali

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Strategic Culture riporta un articolo molto interessante scritto da Valentin Katasonov: basta considerare l’Islanda come un “modello di democrazia dal basso”, anche il piccolo Paese Nordico è soggiogato ai “poteri forti” dei banchieri internazionali

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I media sembrano altalenanti nel riportate le notizie sulla cosiddetta rivoluzione d’Islanda, descrivendola quale esempio di successo nella lotta contro l’oligarchia finanziaria mondiale. In termini concreti, è tutta una questione di debiti che l’Islanda deve ai titolari dei conti di deposito.

La piccola nazione amante della libertà avrebbe coraggiosamente sfidato l’oligarchia finanziaria. I sostenitori estatici di tale “rivoluzione islandese” hanno iniziato a sostenere che i media mondiali volutamente nascondono gli eventi che si svolgono sull’isola “vichinga” in modo che “il contagio della rivoluzione” non si diffonda in tutto il mondo. In effetti, i media sono riluttanti nel riferire ciò che sta accadendo là.

Tutto iniziò circa una decina di anni fa, la nazione era sulla via della liberalizzazione economica globale. Tutte le banche islandesi sono state privatizzate, i flussi di capitali transfrontalieri divennero assolutamente liberi, agli investitori stranieri furono concesse agevolazioni fiscali.

Il Paese fu definito un grande “hedge fund”. Le banche diventarono rapidamente il nucleo dell’economia del Paese. Esse furono coinvolte nel mondo delle speculazioni dei mercati finanziari ed iniziarono ad espandere le attività dei titolari di conti locali per attrarre il denaro proveniente dall’estero (prevalentemente da individui), da Paesi come la Gran Bretagna, l’Olanda e la Germania.

I tassi di interesse lucrativi vennero utilizzati per lo scopo. Una costante crescita della piramide del debito ha iniziato a creare il “miracolo economico” sull’isola. Nel 2003 il settore bancario rappresentava il 200% del prodotto interno lordo (PIL), ed è poi aumentato al 900% nel 2007. Le “briciole della tavola dei ricchi” caddero sulla sparuta popolazione dell’Islanda, 320 milioni fu una somma ingente.

Prima della crisi finanziaria, l’Islanda era stata pubblicizzata come un Paese occidentale estremamente prospero. Nel 2007 le Nazioni Unite la nominarono la nazione con la prima qualità di vita al mondo. I professori universitari tennero conferenze sul “miracolo economico” dell’Islanda…

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Mentre la crisi economica mondiale ha cominciato a profilarsi all’orizzonte, il miracolo svanì dall’uscio di casa. La piramide del debito non è cresciuto ulteriormente, ma le svalutazioni delle banche del Paese hanno portato a un default da 85 miliardi di dollari nel 2008. Si doveva un sacco di denaro ai titolari dei conti esteri. Il governo islandese inizialmente agì in conformità con le prescrizioni degli adepti del liberalismo economico:

a) il governo ha assunto gli obblighi di rimborsare i depositanti delle banche fallite;

b) il default sovrano è stato dichiarato;

c) il governo è andato dal Fondo Monetario Internazionale per il pacchetto di salvataggio;

d) lo Stato ha accettato di rispettare le condizioni dettate dal Fondo Monetario Internazionale e da altri possibili “salvatori”.

Su iniziativa di Reykjavik, entro la fine del 2009, il Parlamento preparò anche un progetto di legge volto a ripagare le perdite dei depositanti esteri, i colloqui sul rifinanziamento del debito si sono svolti con la Gran Bretagna e i Paesi Bassi. Poi l’Islanda ha preso alcune misure straordinarie.

Formalmente le misure furono dettate dai “buoni cittadini”, che tutto ad un tratto “si sono svegliati” e sono andati in piazza chiedendo che l’Islanda semplicemente si rifiutasse di pagare i debiti delle banche. Le persone volevano, inoltre, che i banchieri fossero messi dietro le sbarre. Nel Marzo 2010 un referendum ha avuto luogo, il 93% degli isolani ha votato contro il pagamento da parte del governo dei finanziatori/creditori sul debito.

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Il governo ha in seguito preso i seguenti provvedimenti:

a) rifiuto di pagare i debiti delle banche nazionali ai depositanti stranieri;

b) nazionalizzazione delle banche;

c) rifiuto di un default sovrano.

Che cosa è successo veramente? E’ vero, il governo ha rifiutato di rimborsare 5,3 miliardi di dollari del debito a 340 mila depositanti della Gran Bretagna e dei Paesi Bassi. Il sistema di assicurazione che esisteva prima del fallimento copriva i soli residenti o i cittadini islandesi. Va notato che le banche islandesi hanno agito in molti modi, come le banche delle zone offshore, le quali normalmente non hanno alcuna assicurazione per i depositanti stranieri.

I tentativi iniziali del governo di mettere l’onere di salvataggio interamente sulle spalle dei contribuenti erano illegali. Se fosse accaduto, sarebbe notevolmente aumentato il debito sovrano dello Stato islandese, affinché il governo fosse in grado di pagare anche i tassi di interesse.

Se fosse avvenuto questo, un default sovrano sarebbe diventato inevitabile, ma tale scenario vedeva l’oligarchia finanziaria fermamente contraria. Sarebbe stato un precedente per quello spagnolo, e avrebbe potuto far cadere l’Europa a pezzi come un castello di carte entro la fine del decennio. I banchieri hanno scelto il male minore.

Non c’è stata nessuna “opposizione” dell’isola nei confronti del Fondo Monetario Internazionale e ad altri organismi economici e finanziari mondiali. Il 24 Ottobre 2008 l’Islanda ha chiesto al FMI un pacchetto di salvataggio. Il 17 Novembre 2008, il Paese ha ricevuto 5,1 miliardi di dollari (il 30% del PIL nazionale) per il rimborso del deficit di bilancio.

In cambio l’Islanda ha assunto l’obbligo di ridurre il deficit e ripristinare il normale funzionamento del settore finanziario. Nel Luglio 2009 il governo islandese ha annunciato il piano di ricapitalizzazione per le tre nuove banche create dai resti di quelle vecchie, volte ad ottenere 2,1 miliardi di dollari (il 12% del prodotto interno lordo nazionale) dai titoli di Stato.

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La cosiddetta “nazionalizzazione delle banche” è stata approvata ai tempi della crisi negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in alcuni Paesi europei. Il processo è puramente tecnico, le banche vengono salvate a spese del bilancio dello Stato. Dopo di che, lo Stato gradualmente riduce la sua presenza nel capitale delle banche facendoli diventare soggetti privati. A proposito, i depositanti stranieri non hanno subito alcun danno e ricevono compensi adeguati dai loro rispettivi governi.

Inoltre, è assolutamente indiscutibile che il governo islandese abbia avuto obblighi di debito statali. Il debito era abbastanza grande, ma non da record. Nel 2007 era pari al 29,1% del PIL, aumentando al 70,3% nel 2008 e al 88,2% nel 2009. Queste cifre erano comparabili in quel momento con quelle dell’Irlanda e della Grecia.

Il governo islandese non ha mai dichiarato un default sovrano, ma tutto ad un tratto i media mondiali hanno iniziato a segnalare (rivelando un grande segreto) che fosse un qualche precedente e che sarebbe stato dichiarato il default dello Stato. Lo dico una volta di più, nulla di simile è accaduto. E’ vero, c’è stato un momento spiacevole nei rapporti tra l’Islanda e il Fondo Monetario Internazionale nel 2009.

I “vichinghi” suggerirono che non avrebbero rimborsato il debito del FMI, non perché non volessero, ma perché non avevano i soldi per farlo. Il Fondo ha poi suggerito che sarebbe stato un creditore “privilegiato” e che i depositanti delle banche islandesi potevano aspettare.

Quale fu il motivo per aver inventato la favola del default dell’Islanda? Forse è stata propagandata per spingere la Grecia, la Spagna, il Portogallo e gli altri Stati membri dell’Unione Europea nella stessa direzione. Già nel Gennaio 2012 un esperto russo, Sergey Golubitsky, ha pubblicato l’articolo intitolato Why There is no Revolution in Iceland. The Icelandic Hoax Concocted by US Bankers? (Perché non c’è la rivoluzione in Islanda. L’imbroglio islandese ordito dai banchieri statunitensi, n.d.t), ha dimostrato che:

a) non c’era nessuna rivoluzione in Islanda;

b) gli eventi, che sono erroneamente descritti come una “rivoluzione”, sono stati messi in scena da Wall Street per i propri scopi.

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Tutte le emozioni furono scatenate dalle banche di Londra e Wall Street (Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, Barclays) che hanno emesso un gran numero di strumenti finanziari denominati Credit Default Swap (CDS). Gli swap sono una specie di assicurazione su tutti i tipi di default dichiarati da banche, società, e Stati in debito.

Le banche creditrici e i titolari di obbligazioni sul debito hanno pagato centinaia di miliardi di default swap, compresi i CDS pubblici spagnoli. Le banche avevano paura che, come anello debole dell’economia europea, l’Islanda potesse creare un precedente di default sovrano con tutte le conseguenze che ne derivano per gli squali di Wall Street.

Se il governo islandese avesse rilevato insopportabile il pagare i clienti stranieri delle banche islandesi, allora nulla li avrebbe salvati dal vero default. Un altro gruppo di banche e società, che hanno comprato decine di questi giocattoli chiamati Credit Default Swap, sogna invece che le insolvenze sovrane avvengano.

L’articolo di Sergey Golubitsky sull’Islanda si conclude così: «ci sono centinaia di miliardi di euro spesi per acquistare credit default swap, ogni dramma creerà una situazione di default, anche se si tratta di una profanazione come la rivoluzione fatta dalla piccola ma orgogliosa nazione-isola».

Attualmente l’Islanda non è diversa da altri Stati d’Europa. Come i suoi vicini europei, sta gradualmente affondando nel pantano della crisi del debito. Qui ci sono le dinamiche di crescita totale del debito sovrano nell’eurozona (in percentuale di PIL): 66% nel 2007, 88% nel 2011, 93% nel 2012.

Secondo la Commissione europea, quest’anno la cifra sta per superare il 93%. Abbiamo già detto che nel 2009 il debito pubblico dell’Islanda era dell’88,2% salendo al 118,9% nel 2012. Non vi è alcuna situazione di stallo (come a volte alcuni media affermano) tra l’Islanda e il FMI.

E’ difficile dire addio alle illusioni. L’Islanda è solo un altro modo in cui i banchieri mondiali riescono a guidare le pubbliche proteste nella direzione che loro desiderano. E’ anche difficile immaginare ciò che l’Occidente avrebbe fatto se il popolo islandese davvero avesse deciso di alzarsi e di opporsi agli interessi della finanza internazionale.

Nel mondo contemporaneo ci sono molti esempi, e veri precedenti, di tali azioni in atto, in cui l’onnipotente oligarchia finanziaria è davvero affrontata, solo che questi eventi sono taciuti dai media mondiali.

 

Articolo originale scritto da Valentin Katasonov per “Strategic Culture”, traduzione in Italiano a cura di Luca Fusari pubblicata da “L’Indipendenza”

 

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