L’Italia sta disimparando a produrre

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L’Italia registra un notevole ritardo nell’adozione dell’Ict. Ridurre la rigidità del mercato del lavoro non è sufficiente se la gestione delle risorse umane all’interno delle imprese resta ancorata a vecchi modelli poco meritocratici. Il male italiano, la cattiva allocazione delle risorse (tratto da lavoce.info)

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I MALI D’ITALIA

L’Italia è spesso considerata come la bella addormentata d’Europa: un paese ricco di talento e di storia, ma colpito da una stagnazione di lunga durata. Il reddito pro-capite italiano, espresso come percentuale della media UE15, è diminuito costantemente dal 1994 in poi e nel 2012 si è attestato all’84 per cento di quella media. Eppure, non è sempre stato così. Negli anni Settanta e Ottanta l’Italia ha registrato risultati migliori in termini di crescita rispetto agli altri paesi europei, per poi trasformarsi nel fanalino di coda negli anni Novanta e Duemila. Cosa è successo?
La risposta a questa domanda è complessa e riguarda molte dimensioni socio-economiche. Tuttavia, nel dibattito pubblico, la causa che viene spesso sottolineata è che l’Italia ha perso la sua competitività. Il focus sulla competitività è così forte che le linee guida della Legge di Stabilità 2014 evidenziano due priorità: consolidare l’attuale ripresa e intervenire sui fattori che limitano la competitività.

ABBIAMO “DISIMPARATO” A PRODURRE

Incredibilmente però le linee guida rimangono silenti su quello che probabilmente è il principale motore delle due priorità: la crescita della produttività. La figura 1 mostra la scomposizione del tasso di crescita del valore aggiunto italiano negli ultimi quarant’anni. La crescita della produttività totale dei fattori (TFP nelle figure che seguono) si è ridotta nel corso degli anni, diventando negativa negli anni 2000.
La TFP misura l’efficienza dell’utilizzo di date quantità di capitale e lavoro, dunque la sua crescita negativa segnala una riduzione senza precedenti della capacità dell’Italia di trasformare le proprie risorse produttive in valore aggiunto.

Figura 1 – Contributi alla crescita di valore aggiunto per l’Italia

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Fonte: EU-Klems

L’andamento della TFP nel settore manifatturiero è alquanto emblematico del declino italiano: la figura 2 ne mostra l’eccezionale rallentamento rispetto a Francia e Germania sin dal 1995.

Figura 2. TFP e produttività del lavoro nei paesi considerati, 1970-2010Ottaviano2

Fonte: EU-Klems

LA CATTIVA ALLOCAZIONE DELLE RISORSE

Sempre dalla figura 1 si ricava che gli stock di capitale e lavoro hanno continuato a crescere e dunque la stagnazione italiana va attribuita a una loro allocazione errata. In effetti, la figura 3 mostra che tra il 1995 e il 2006 l’Italia ha investito di più in settori manufatturieri che hanno registrato una crescita inferiore della TFP, al contrario di quanto accaduto in Germania.
Un’ulteriore possibile prova della cattiva allocazione delle risorse può essere dedotta combinando i dati della TFP con le informazioni sui prestiti privati per tipologia di attività economica, raccolti dalla Banca d’Italia: si rivela come non ci sia praticamente alcuna correlazione tra la crescita dei prestiti e la crescita della TFP nei diversi settori tra il 1999 e il 2007 (il coefficiente di correlazione a livello settoriale a due cifre è 0,07).

Figura 3 - Investimenti e crescita della TFP, Italia vs Germania (1995-2006, settore manifatturiero)

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Fonte: EU-Klems

Quanto potrebbe essere costata questa cattiva allocazione? Un tentativo di risposta può essere dato focalizzandosi ancora di più sul settore manifatturiero e applicando la procedura standard di Olley e Pakes usando i dati a livello di impresa da Bartlesman, Haltiwanger, e Scarpetta (2009). (1)
Il risultato è che in Italia, l’indice di TFP nel settore manifatturiero è del 5,77 per cento più basso di quanto sarebbe se le risorse produttive fossero state assegnate in modo casuale tra le imprese. In altre parole, se togliessimo alle imprese capitale e lavoro per poi ridistribuirli di nuovo casualmente, la produttività del settore manifatturiero in Italia aumenterebbe di quasi il 6 per cento.

E SE FOSSE LA RIGIDITÀ DEL MERCATO DEL LAVORO?

Come spiegazione della cattiva allocazione delle risorse molto spesso viene indicata la rigidità del mercato del lavoro. L’ idea che sta alla base del ragionamento è che un mercato del lavoro rigido influenza la produttività ostacolando la riallocazione del lavoro verso le imprese e i settori più produttivi. Tuttavia, in questo campo l’Italia è intervenuta in modo rilevante negli ultimi venti anni: secondo l’indice sintetico Ocse, la rigidità del mercato del lavoro in Italia è in costante calo a partire dalla metà degli anni Novanta (esattamente da quando la crescita TFP ha iniziato a ristagnare), anzi negli ultimi anni ha raggiunto un livello inferiore a Germania e Francia (figura 4). Quindi, è improbabile che questa sia la causa principale del rallentamento della produttività.

Figura 4 - Rigidità della protezione complessiva dell’occupazione

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Fonte: EU-Klems

PRATICHE DI GESTIONE INADEGUATE E DIVARIO DIGITALE

È opinione condivisa che l’eccezionale sviluppo dell’Information and Communication Technology (ICT) sia stato uno dei principali fattori dell’accelerazione della produttività che gli Stati Uniti hanno vissuto rispetto all’Europa a partire dalla metà degli anni Novanta. (2) Quindi lo stallo della produttività in Italia iniziato in quegli stessi anni potrebbe essere proprio nella limitata diffusione dell’ICT. La figura 5 riporta la quota degli investimenti in ICT sul totale degli investimenti per Italia, Francia e Germania. Si vede chiaramente come dalla metà degli anni Novanta l’Italia non sia riuscita a tenere il passo degli altri paesi.

Figura 5 – Quota degli investimenti in ICT sul capitale fisso

OTtaviano5Fonte: Oecd – database sulla produttività.

Perché sia successo non è ancora chiaro. Una possibile spiegazione è legata alla capacità dei vertici aziendali di adattarsi alla new economy. Ad esempio, Nicholas Bloom, Raffaella Sadun e John Van Reenen mostrano che le pratiche di gestione hanno una notevole influenza sulla penetrazione e l’utilizzo delle ICT e ciò è vero in particolare per pratiche gestionali relative alle risorse umane. (3)
La figura 6 rappresenta la probabilità di individuare casualmente un’impresa in un dato livello di intensità della ICT, misurata dal numero di computer per dipendente. La figura mostra che la probabilità di scegliere a caso una società con una bassa intensità ICT è superiore in Italia che in Francia, e più alta in Francia che in Germania.

Figura 6 - Computer per dipendente, distribuzione di densità a livello di impresa

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Fonte: Bloom, Sadun, Van Reenen (2012).

La figura 7 analizza ciò che Bloom, Sadun e Van Reenen  chiamano “z-score“: cattura la qualità delle pratiche manageriali dal punto di vista della gestione del personale, come ad esempio la gestione del capitale umano, attraverso premi a chi garantisce alte prestazioni, la rimozione di chi dà scarsi risultati e la promozione dei migliori. La figura mostra che l’Italia ha risultati nettamente inferiori di z-score, dovuti al fatto che:

a)      le imprese italiane promuovono i lavoratori principalmente sulla base dell’anzianità, invece di identificare e promuovere attivamente i migliori;

b)     i manager tendono a premiare le persone tutte allo stesso modo e indipendentemente dai loro risultati, invece di fornire obiettivi e premi di risultato;

c)      i dipendenti che producono scarsi risultati raramente sono rimossi dalle loro posizioni;

d)     i dirigenti non sono valutati sulla base della forza del gruppo di talenti che hanno attivamente contribuito a costruire, ed è perciò probabile che non considerino una priorità la ricerca e lo sviluppo del talento.

Figura 7 – Lo z-score 

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Fonte: Bloom, Sadun, Van Reenen (2012).

I tipi di pratiche di gestione che le imprese italiane sbagliano sono proprio quelli che secondo Bloom, Sadun e Van Reenen ostacolano la penetrazione e lo sfruttamento delle ICT. Assieme al ruolo fondamentale che l’ICT ha avuto sulla crescita della produttività negli ultimi venti anni, ciò può essere una spiegazione importante per la stagnazione italiana. Ridurre la rigidità del mercato del lavoro non è sufficiente se rimangono inalterate le pratiche di gestione scarsamente meritocratiche. L’Italia ha perso la capacità di produrre perché sembra non riuscire a gestire correttamente il cambiamento.

L’articolo è stato orginariamente pubblicato su Vox.eu

(1) Olley, Steven, and Ariel Pakes (1996) “The dynamics of productivity in the telecommunications equipment industry”, Econometrica 64 (6): 1263-97. Per l’applicazione a livello di impresa si veda Bartelsman, Eric, John Haltiwanger, and Stefano Scarpetta (2009) “Measuring and Analyzing Cross-country Differences in Firm Dynamics” in Producer Dynamics: New Evidence from Micro Data, National Bureau of Economic Research: 15-76.
(2) Si veda ad esempio Van Ark, Bart, Mary O’Mahony, and Marcel Timmer (2008) “The productivity gap between Europe and the US: trends and causes”, Journal of Economic Perspectives 22 (1): 25-44.
(3) Bloom, Nicholas, Raffaella Sadun, and John Van Reenen (2012) “Americans do IT better: US multinationals and the productivity miracle”, The American Economic Review, 102 (1): 167-201.

 

Articolo tratto da “lavoce.info”

 

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